Libertas Sanvitese A.L."O. Durigon"
Libertas Sanvitese A.L."O. Durigon"

Storie di Atletica

A partire dal mese di marzo, la Libertas Sanvitese dedica uno spazio del proprio sito ai personaggi dell’Atletica Leggera che, per gli straordinari risultati agonistici o per  le loro vicende umane (rivoluzionarie, fantastiche, bizzarre, tragiche…), hanno lasciato un segno nella storia del nostro amato sport. Con cadenza bimestrale, viaggeremo attraverso la storia dell’ultimo secolo alla ricerca di record, imprese leggendarie  e curiosità rimaste sulle piste (e sulle strade) di tutto mondo. 

L’INTERVISTA. ANDREW HOWE E FABRIZIO DONATO OSPITI ALLA CENA SOCIALE DELLA SANVITESE

La rubrica “Storie di Atletica”, per il mese di dicembre 2018, assume un carattere speciale: l’incontro con due campioni del nostro sport uniti dal rapporto atleta-allenatore. Li ha intervistati per noi il nostro velocista di punta Marco Cerea, che ringraziamo.

Il 24 novembre 2018, presso il ristorante “Nuovo Doge” In Villa Manin di Passariano, si è tenuta la consueta Cena Sociale della Libertas “Oreste Durigon”. Il 2018 per la nostra società è però un anno particolare in quanto si festeggiano i 50 anni di attività. Come da tradizione, partecipano alla cena anche degli ospiti d’onore: uomini o donne che si siano distinti in modo esemplare nella pratica dello sport, rappresentando l’Italia e la loro disciplina nel mondo. Quest’anno abbiamo avuto l’onore di poter ospitare Fabrizio Donato (salto triplo) e Andrew Howe (100-200-salto in lungo). Donato vanta un bronzo alle Olimpiadi di Londra 2012 ed è Campione europeo nel 2009 a Torino e nel 2012 a Helsinki. Ha inoltre conquistato 23 titoli italiani e ha partecipato per 5 volte ai Giochi Olimpici. Howe, invece, ha conquistato l’argento ai Campionati del Mondo nel 2007 a Osaka nel salto in lungo, è Campione europeo nel 2006 a Goteborg nel salto in lungo, Campione europeo nel 2007 a Birmingham, sempre nel salto in lungo. A livello giovanile è stato Campione del Mondo Juniores nel 2004 a Grosseto sia nel salto in lungo che nei 200 metri piani. I due grandi campioni hanno risposto alle nostre domande.

1.Com’è avvenuto l’avvicinamento all’atletica?

Fabrizio Donato: Semplicemente come la maggior parte dei bambini. I miei genitori mi hanno accompagnato in un campo di atletica essendone appassionati. All’inizio è stato un gioco, poi ho raggiunto la medaglia di bronzo alle Olimpiadi di Londra 2012.

Andrew Howe: Sono sempre stato vicino all’atletica, nonostante all’inizio abbia fatto anche altri sport. Mia mamma (Renee Felton, ex ostacolista) praticava  atletica e, fin da piccolo, mi ha sempre portato al campo e quindi posso dire di essere cresciuto lì.

2.Com’è stato essere allenato dalla propria madre e cosa ha significato cambiare coach?

Andrew Howe: E` stato molto interessante. In certi momenti è stato sicuramente molto difficile, in altri molto bello. In ogni caso c’è una buona sinergia perché i tuoi genitori ti conoscono meglio di qualsiasi altra persona, ma allo stesso tempo potrebbero avere dei punti ciechi dove altre persone invece potrebbero vedere cose migliori. Cambiare allenatore mi è servito moltissimo. Mi ha aiutato a crescere, a capire i miei sbagli, le mie difficoltà e a capire me stesso. La cosa fondamentale dell’atleta è proprio capire se stesso.

3. Donato, lei ora è allenatore di se stesso. Perché questa decisione e com’è esserlo?

Fabrizio Donato: Vorrei innanzitutto fare una premessa. Ho sempre pensato di nascere e morire con il mio unico allenatore Roberto Pericoli, il mio storico coach che mi ha seguito dal 1995. In quella data  sono entrato a far parte del gruppo sportivo delle Fiamme Gialle pensando di finire la carriera con lui. Poi mi sono ritrovato a Rio 2016 a sbagliare  la mia quinta Olimpiade. Ma avevo ancora una grande voglia di fare, di mettermi in gioco. Ancora mi sentivo competitivo con il mondo, ma avevo bisogno di spazi. Fabrizio era diventato grande, era diventato un uomo e ormai era pronto a camminare da solo. Quindi ho preso in mano la mia vita atletica, dopo averne parlato con il mio allenatore che mi ha continuato comunque a essere vicino. Da allora mi sto divertendo con me stesso.

4. Quali sono state le vostre gare più belle ed emozionanti ?

Andrew Howe: Grosseto è stata sicuramente una delle gare dove mi sono divertito di più. Poi Osaka e i 200 metri al Golden Gala nel 2011.

Fabrizio Donato: Ovviamente siamo condizionati dal risultato finale perché  lì dove si vince una medaglia è una bella gara. Risposta un po’ scontata: la gara che mi ha portato alla medaglia olimpica. È un sogno che si è avverato. Un’ altra grandissima soddisfazione e  vittoria è stata la prima medaglia da allenatore di me stesso a Belgrado 2017 dove ho vinto l’argento allenandomi da solo.

5.Vi ricordate la preparazione per queste gare e come avete gestito l’avvicinarsi di quelle manifestazioni?

Andrew Howe: La preparazione è sicuramente un momento difficile sia a livello mentale che fisico. Probabilmente a volte è più dura a livello mentale perché a livello fisico, essendo professionisti, riusciamo sempre ad andare avanti  e a superare problematiche di ogni tipo. La difficoltà sta proprio quindi a livello psicologico per l’avvicinamento della gara stessa. Nelle gare più importanti, dove sono riuscito a “capovolgere la situazione”, il fattore mentale è stato fondamentale, molto più del fattore fisico.

Fabrizio Donato: Ogni gara ha una storia a sé. Per esempio, le due gare che ti ho citato prima (quella che mi ha portato alla medaglia olimpica e quella di Belgrado) sono state completamente diverse tra loro. In entrambe il rapporto con la preparazione è stato abbastanza buono, anche se si sono presentate le solite difficoltà fisiche che purtroppo l’età può presentare. In una delle due gare c’era molta pressione psicologica, in quanto a Londra 2012 ero uno dei pochi atleti rimasti della “spedizione” azzurra. Per questo motivo avevo molta pressione addosso e mentalmente l’avvicinamento a questa manifestazione è stato molto duro. Nell’altra gara invece avevo molti problemi fisici. È stato difficile arrivare in fondo alla pedana con un salto buono senza farsi male.

6. Andrew, lei è stato sia saltatore che velocista. Quale preferisce essere?

Mi sono sempre piaciuti tutti e due. Quando ero piccolo mi piaceva molto di più fare il saltatore perché non ero velocissimo. Fino all’età di 15 anni non ero esageratamente veloce. Da lì in poi ho cominciato a correre un pochino di più e sono approdato alla velocità. Velocità comunque prolungata perché non sono mai stato un grande centometrista, sessantista. Anzi, tutto il contrario: ho bisogno di tempo per muovermi, mettermi in moto. Quindi alla fine mi piace essere sia saltatore che velocista. Non ho una preferenza.

7. C’è un senso d’orgoglio e d’appartenenza per le specialità dell’atletica?

Andrew Howe: Penso proprio di sì. Ci deve essere. Io sono un saltatore in lungo e sono orgoglioso di poterlo essere. Inoltre ogni specialità dell’atletica leggera ha qualcosa di diverso dalle altre che la rende unica. Per esempio il lancio del giavellotto o la marcia sono quasi sport a se stanti.

Fabrizio Donato: Decisamente si. Io del salto in lungo ne ho fatto uno stile di vita. Me lo sono cucito addosso. La vita ci presenta ogni giorno delle difficoltà e vi posso assicurare che nel salto triplo di difficoltà ce ne sono tante. Quei tre balzi che nei video sembrano così semplici sono in realtà decisamente difficili. Quindi sono veramente orgoglioso.

8.  Sogni e prospettive per il futuro?

Fabrizio Donato: Non ti nascondo che alla mia età continuo a sognare. Forse questa è proprio la mia forza. Sogno e vado avanti. Mi sento ancora un ragazzo. Non un ragazzino, ma un ragazzo sì. I sogni sono abbastanza chiari ormai: il mio obiettivo è raggiungere la sesta olimpiade a Tokyo 2020. Metterò tutto me stesso per riuscire ad arrivare fino a lì.

Andrew Howe: Ci sono tanti sogni, anche se per me la cosa fondamentale è arrivare alle Olimpiadi. Per una volta nella mia vita voglio riuscire a lottare per raggiungere una finale olimpica. In ogni caso continuerò fino a quando il mio corpo me lo permetterà perché amo l’atletica, amo il mio sport.

Marco Cerea

GELINDO BORDIN E IL TRIONFO DI SEOUL

Me la ricordo ancora, la telecronaca di Paolo Rosi in quella diretta Tv da Seoul che raccontava uno dei momenti più attesi della XXIV Olimpiade: la maratona, con il suo forte significato simbolico, quei 42 km che evocano le gesta di Filippide e rimandano ad una dimensione epica dello sport. Era il 2 Ottobre 1988 e le immagini sbiadite della TV sono rimaste indelebili nei miei ricordi e mi emoziono ancora nel rivederle (le si può trovare facilmente, oggi, nell’epoca di Internet): Gelindo Bordin entrava nella storia perché era il primo italiano a vincere la maratona olimpica; e il modo in cui tutto ciò avvenne gli fa assumere un significato ancora più grande.

Bordin è alto, magro e con una barba che ne esalta ulteriormente la magrezza. Indossa il pettorale numero 579 e lo si intravede nel gruppo di testa già dai primi chilometri, ma la gara è davvero dura perché gli avversari sono bravi e determinati, il percorso impegnativo e il clima caldo-umido è estenuante. Gelindo ha una crisi al 15° km, ma reagisce e si riporta nel gruppetto di testa. Chi ha corso la maratona sa che la gara “si fa” dal 30° km. Così accade. Il gibutiano Hussein Ahmed Salah e il keniano Douglas Wakiihuri danno una scossa al ritmo di corsa e il gruppetto, già ridotto a quattro atleti, si frammenta ancora poiché il giapponese Nakayama si stacca e resta fuori dai giochi. Il podio ormai è fatto: sono gli stessi tre atleti saliti sul podio ai Mondiali di Roma dell’anno precedente, dove il vincitore era stato Wakiihuri, Salah secondo e Bordin terzo. Si tratta solo di capire se il copione sarà lo stesso. Al 38° chilometro c’è un attacco e Bordin perde terreno. Ma non si perde d’animo, resiste, reagisce e rimonta prima il keniano e poi Salah, che continua a voltarsi con lo sguardo di chi è consapevole che ha “finito la benzina” e vede sfumare la vittoria. Bordin lo supera, ma è stremato e sembra quasi contare ogni metro che lo separa dai 42 km e 195…All’entrata dello stadio sa che ormai è fatta: sorride, saluta il pubblico, taglia il traguardo, si inginocchia e bacia la pista. 2 ore 10 minuti e 32 secondi. Un trionfo! 

Ho un legame particolare con questa pagina dell’Atletica Leggera. Quella telecronaca, la tenacia di Bordin, un uomo “normale” che con impegno e dedizione (30 chilometri al giorno per preparare la maratona olimpica) ottiene un successo strepitoso, mossero qualcosa dentro di me. Iniziai ad allenarmi. Quattro anni dopo corsi la mia prima maratona (troppo presto forse), a Palermo dove conobbi Gelindo Bordin: ogni tanto guardo la foto ingiallita che ci ritrae assieme… Lo condivido perché mi piacerebbe che, chi legge, potesse provare anche solo in parte la stessa emozione. Dopotutto, il significato di “Storie di Atletica” è questo: memoria ed emozione, donne e uomini che hanno lasciato il segno nel nostro sport.

Gelindo Bordin oltre all’Oro di Seoul ottenne altri prestigiosi successi. Allenato da Luciano Gigliotti, già nel 1986 vinse il titolo Europeo di Maratona  a Stoccarda, battendo allo sprint Orlando Pizzolato. Poi il Bronzo ai mondiali di Roma e ancora una volta Oro all’Europeo di Spalato (1990). Il suo primato personale è sempre del 1990, vincendo a Boston in 2 ore 8 minuti e 19 secondi. E’ ancora oggi la quarta prestazione italiana di sempre, dopo Stefano Baldini (2h07.22), Giacomo Leone (2h07.57) ed Alberico Di Cecco (2h08.02).

Daniele Sottile

JESSE OWENS

il trionfo della cosiddetta “razza inferiore”

Se c’è un personaggio dello sport le cui vicende s’intrecciano indissolubilmente con i fatti storici e politici del ‘900, questo è Jesse Owens.

James Cleveland Owens, naque ad Oakville, Alabama, il 12 settembre 1913 (12 settembre, questa data vi dice qualcosa?!), ma per tutti è Jesse, in virtù dello slang usato dal suo insegnante nel chiamarlo utilizzando le iniziali J.C.. Owens apparteneva ad una famiglia poverissima, il padre contadino e lui era il settimo di dieci figli. Le condizioni di vita di quell’epoca, con gli Stati Uniti vessati dalla Grande Depressione, erano davvero proibitive, soprattutto per la gente di colore che viveva nel Sud del paese. A nove anni, Jesse si trasferì in Ohio, a Cleveland, dove, finite le scuole, cominciò a lavorare in un negozio di scarpe. Nei momenti di pausa si recava sulla pista dell’Università dell’Ohio per dedicarsi a ciò che più amava fare: correre! E’ lì che nacque uno dei più grandi fenomeni dell’atletica leggera. Nel 1933 le sue abilità nella velocità e nel salto in lungo emersero nel corso dei Campionati Studenteschi e, con l’ammissione all’Università, ebbe inizio la carriera atletica. Solo due anni dopo, Owens stabilì i Record mondiali del salto in lungo (8.13m), delle 220 iarde  con ostacoli (22’6) e senza (20’’3) - allora si correvano in rettilineo, senza curva, e con la misurazione inglese - e eguagliò quello delle 100 iarde. Questi sono numeri che impressionano se si pensa ai materiali utilizzati per il manto della pista, alle attrezzature utilizzate e alle scarpe di allora.

Le eccezionali abilità di Owens facevano di lui uno degli atleti più attesi alla vigilia delle Olimpiadi di Berlino del 1936. E infatti, i risultati non mancarono: quattro medaglie d’oro, conquistate nei 100m (10’’3), nei 200m (20’’7), nel Salto in Lungo (8.06m) e nella 4x100m. Bisognerà aspettare il 1984, Olimpiadi di Los Angeles, prima di trovare un altro atleta capace di ripetere l’impresa dei quattro ori: sarà Carl Lewis nelle stesse quattro gare.

Per quanto grande fosse il valore di quelle vittorie, esse assunsero rapidamente un altro significato, per la loro collocazione in un periodo dei peggiori che l’umanità possa ricordare e nell’edizione dei Giochi olimpici più politicizzata e utilizzata come propaganda. Siamo all’alba della seconda guerra mondiale, in un contesto di relazioni politiche internazionali esplosivo e la Germania ha ottenuto dal CIO (nonostante l’assoluta incompatibilità dell’ideologia nazi-fascista con i  valori olimpici) il compito di organizzare i Giochi. Per il brutale regime nazista è la migliore occasione per mostrare la grandezza nella nazione tedesca - con un’organizzazione impeccabile e il primo posto nel medagliere - e per sancire la superiorità della cosiddetta “razza ariana”. Tutti gli atleti di origine ebraica furono esclusi dalla squadra tedesca, svastiche e braccia alzate sancirono ogni momento ufficiale. Allo stesso tempo, però, si fece di tutto per trasmettere serenità alle delegazioni venute dall’estero: Berlino era sempre in festa e il villaggio olimpico accoglieva indiscriminatamente atleti di etnia, lingua e religione diverse. Solo qualche anno dopo, le persecuzioni di ebrei (ma anche rom, omosessuali e diversi di ogni genere) e i campi di concentramento mostreranno il vero volto del regime nazista.

La manifesta superiorità di Jesse Owens scombinò indubbiamente i piani del Führer, ma su ciò che accadde veramente tra i due è oggetto di disputa tra gli storici. Il mito si fonde con la storia, la politica con lo sport. Si narra che Hitler abbandonò gli spalti dello stadio al momento della premiazione, ma l’autobiografia di Owens ci dice che invece ricevette un cenno di riconoscimento da lui dalla tribuna d’onore mentre raggiungeva gli spogliatoi. Pare, addirittura, che i due si siano incontrati e che Owens abbia ricevuto da Hitler una foto autografata. Che sia vero, forse, non lo sapremo mai. Sappiamo che il Führer – e la sua folle ideologia -  dovette piegarsi alla grandezza di un atleta afro-americano venuto dal profondo sud degli Stati Uniti. Sappiamo che durante la gara del Salto in Lungo, fu proprio l’”ariano” tedesco Long ad aiutare Owens a ‘trovare’ l’asse di battuta e che tra i due nacque una profonda amicizia; ma questa è un’altra storia. Sappiamo che negli Stati Uniti gli afro-americani vivevano ancora in condizione di semi-schiavitù e Owens, seppur accolto dalla folla come un eroe, non fu ricevuto dall’allora presidente degli U.S.A.  Roosevelt: troppo sconveniente per lui, seppur democratico, una mossa del genere in prossimità delle elezioni presidenziali. Infatti Owens finì col partecipare alla campagna elettorale sostenendo il repubblicano Landon.  Disse: “Vero, Hitler non mi ha stretto la mano, ma fino a qui non lo ha fatto neanche il Presidente degli Stati Uniti.” Bisognerà aspettare il 1955, perché ricevesse un giusto riconoscimento: Eisenhower lo nominò ambasciatore dello sport. Nel 1976 ricevette la massima onorificenza per un civile, la ’’Medaglia Presidenziale della Libertà’’. Dopo la sua morte, la città di Berlino gli ha dedicato una via e, nel 1990, Bush  gli ha conferito la “Medaglia D’Oro al Congresso”.

Il 31 Marzo 1980 Jesse Owens moriva, la sua leggenda vive ancora.

Daniele Sottile

JONATHAN EDWARDS

l’evoluzione del Salto Triplo

Göteborg, lunedì 7 Agosto 1995, Campionati del Mondo di Atletica Leggera. Jonathan Edwards è in pedana e si appresta ad avviare la sua rincorsa; inizia per lui la gara del salto triplo che segnerà la sua carriera e la storia di questa specialità. Sembra un po’ smarrito, lì su quella pedana: non è certo un tipo esuberante, anzi schivo, quasi impacciato. Ma nel momento del suo “Hop, Step, Jump” è sublime; l’eleganza e la fluidità del suo gesto fanno pensare ai non addetti ai lavori che sia tutto molto semplice…

Parte la rincorsa, lo stacco… uno, due, tre e vola! È un salto lunghissimo, lo si vede ad occhio nudo; è valido poiché la leggera brezza a favore rimane al di sotto dei 2m al secondo. Dopo attimi di attesa in assoluto silenzio arriva il verdetto: 18,16m che equivale al nuovo record del mondo ed Edwards è il primo uomo a superare i 18 metri (immaginate di attraversare un campo da pallavolo da una linea di fondo all’altra!). Ma quel pomeriggio è davvero magico. L’aria “elettrica” e il ritmo degli applausi del pubblico portano Edwards ancora più in là: diciotto metri e ventinove centimetri. Da allora, nessuno ha mai fatto meglio… Solo due mesi prima aveva fatto ancora meglio: un pazzesco 18.46, in Coppa Europa, a Lille. Ma qui il vento soffiava a 2.4m/s e per Jonathan, il gabbiano, ci fu solo la gioia della vittoria, niente Record.

In circa quindici anni di attività ad altissimo livello, Jonathan Edwards ha raccolto successi strepitosi che lo hanno incoronato re del salto triplo. Tra i vari titoli: ai Giochi Olimpici, un Argento (Atlanta 1996) e un Oro (Sidney 2000); ai Campionati Mondiali, due Ori (Goteborg 1995, Edmonton 2001), un Argento (Atene 1997), due medaglie di Bronzo (Stoccarda 1993, Siviglia 1999); nel 1998, vinse gli Europei sia indoor  (Valencia) sia all’aperto (Budapest) e nel 2002 ultimo alloro per lui con la conquista della medaglia di bronzo all’Europeo (Monaco). Eppure la carriera di Edwards non è stata molto lineare: i primi anni dell’attività sono stati segnati dalla forte convinzione di non dover gareggiare la domenica. Nato a Londra il 10 maggio 1966 in una famiglia di fede anglicana, il padre è un pastore, viene educato al rigoroso rispetto dei precetti religiosi. Quindi, la domenica non si lavora, e non si gareggia: nemmeno se la competizione è di livello internazionale (“non mi vendo per una medaglia”, diceva). Così accadde ai Campionati Mondiali di Tokio (1991), dove la gara si svolse proprio di domenica e Edwards, rinunciando alla gara, vide svanire la medaglia. Negli anni successivi, rivide la sua rigida posizione: ottenne la dispensa dal padre e poté gareggiare liberamente, per sua fortuna, e per fortuna dell’Atletica Leggera. Terminata la carriera sportiva, Jonathan Edwards è diventato un commentatore Tv della BBC e negli ultimi anni ha cambiato radicalmente la sua visione del mondo. In un’intervista rilasciata al quotidiano “La Repubblica” qualche anno fa dichiarava: ''Ero figlio di un pastore, non gareggiavo la domenica. Oggi sono evoluzionista, ateo. Credo che la vita progredisca. Come potevo credere all'esistenza di un essere superiore che ha creato l'universo? Non c'è prova. Sono stupito dalla mia ingenuità, anzi dalla mia fesseria. Però mi perdono. Il mondo dello sport rimpicciolisce tutto. È un piccolo mondo con le sue certezze: allenamento, gara, coach, squadra, massaggiatore. Non c'è altro che conti, non serve, perché lo sport ti ripaga con l'adrenalina. Ma ti restringi i confini

Comunque la si pensi, le vicende di questo grande campione ci invitano a guardare il mondo in maniera “relativa” . Il tempo, le esperienze, le relazioni con gli altri ci cambiano e cambiano la percezione che abbiamo di ciò che ci circonda. Nulla è per sempre. Ci restano, però, il ricordo e i filmati sbiaditi dei salti di Jonathan, il Gabbiano.

 

Daniele Sottile

ROGER BANNISTER
PUO’ UN UOMO CORRERE UN MIGLIO IN MENO DI QUATTRO MINUTI?

Da quel marzo 2016, quando abbiamo cominciato a dedicare uno spazio del nostro sito ai campioni dell’Atletica Leggera, più volte ho avuto la voglia di dedicare una pagina a Roger Bannister e alla sua impresa leggendaria sul miglio; ho sempre rimandato, dedicandomi a personaggi formidabili, più o meno conosciuti, che hanno conquistato titoli olimpici e mondiali o stabilito record. All’inizio di questo mese Sir Bannister è morto, all’età di 88 anni, segnato dalla malattia di Parkinson, che conosceva bene, avendo dedicato tutta la sua vita alla medicina.Raccontare di quel record sui 1609 metri, per la prima volta inferiore ai 240 secondi, è doveroso. Il giorno è il 6 maggio del 1954, il posto la pista di Iffley Road, a Oxford, cittadina dove Roger Bannister studiava per diventare un luminare della neurologia. Il record, di per sé, non è dei più prestigiosi, né durò a lungo, poiché cadde solo 46 giorni dopo. Ciò che lo rese celebre fu l’abbattimento di quel muro dei 4 minuti, su una distanza - il miglio - tipicamente inglese e soprattutto le immagini dell’epoca che immortalarono il nostro eroe al traguardo, trasfigurato dallo sforzo. Ad aiutare Bannister furono due forti atleti dell’epoca:

 

Chris Chataway e Chris Brasher, che, alternandosi, gli fecero da “lepre”; ma il passaggio all’inizio dell’ultimo giro risultò lento, obbligando Roger a correre gli ultimi 400m sotto i 60 secondi (per un attimo temette di aver fallito). I minuti successivi a quell’arrivo sono rimasti nella storia e, per questa volta, eccezionalmente, mi affido a Giorgio Cimbrico, che sul sito della FIDAL li ha raccontati magistralmente.

Di quell’arrivo esiste una foto che sembra scattata da Robert Capa: Bannister è al centro, capo all’indietro, trasfigurato nello sforzo finale, un giudice, pipa in bocca, annota compunto, un cronometrista si copre il volto e scoppia in lacrime premendo il bottone che blocca le lancette, i compagni di corso, sullo sfondo, corrono sul prato, gli occhi eccitati. Nell’immagine non è inquadrato Harold Abrahams che aveva preso Roger sotto le sue ali e aveva trovato posto a bordo pista, qualche metro prima del traguardo, senza far valere il suo nome, il suo passato.

In un’età che non prevedeva tabelloni luminosi e comunicazioni immediate, si trattava di attendere il responso, il verdetto. Venne per bocca dello speaker Norris McWhirter e servì ad alimentare lo stereotipo del formalismo britannico, unito a un sottile amore per la suspence da propagare come un brivido sottile:

“Signore e signori, questo è il risultato della gara numero 9, il miglio: primo, il numero 41, Roger G. Bannister dell’Amateur Athletic Association e studente dei college Exeter e Merton, con un tempo che rappresenta un nuovo record della pista e del meeting e che, dopo esser stato sottoposto a ratifica, sarà un nuovo record inglese, britannico, su suolo britannico, europeo, dell’Impero britannico e del mondo. Il tempo è 3’...”.

Il ruggito della folla coprì il numero dei secondi e dei decimi, disperse per un lungo attimo l’ufficialità di quel 3’59”4. “Tre” significava l’atterraggio nel mondo nuovo, il piede posato su un pianeta proibito. Poteva un uomo correre un miglio in meno di 4 minuti? Poteva.

Daniele Sottile

(il corsivo è tratto dal Sito Fidal, Giorgio Cimbrico)

 

 

DICK FOSBURY

e la rivoluzione del salto in alto

La storia è sempre stata contrassegnata da fatti cruciali che ne hanno cambiato il corso. Lo stesso si può dire della storia dello sport: personaggi, atleti, allenatori, squadre che con le loro gesta o il loro “metodo” hanno determinato un’autentica rivoluzione. E’ ciò che è accaduto in un pomeriggio messicano ad un giovane statunitense di fronte all’asticella del salto in alto, emblematico simbolo di frontiera da superare.

Lui è Richard Douglas Fosbury, detto Dick, nato il 6 marzo 1947 a Portland. E’ il 20 di ottobre del 1968 e l’evento è la finale del salto in alto maschile di una delle più belle e significative Olimpiadi della storia. Con il suo numero 272, le due scarpe di colore diverso (bianca sul piede desto e blu su quello sinistro) per  vezzo o chissà cosa, alto, magro e un po’ sgraziato, stupì il pubblico sugli spalti scavalcando l’asticella di spalle, come nessuno aveva mai fatto. 224 cm: medaglia d’oro e record olimpico, iniziava l’era moderna del salto in alto. Fino ad allora, il miglior saltatore in alto era stato Valerij Brumel, atleta sovietico vincitore della medaglia d’argento alle Olimpiadi di Roma nel 1960 e d’oro a quelle di Tokyo, quattro anni più tardi. Brumel era invincibile: nella sua carriera stabilì per ben sei volte il record del mondo raggiungendo, centimetro dopo centimetro, i 2.28m. E come tutti utilizzava la tecnica di scavalcamento ventrale, quella inventata all’inizio del ‘900 dall’americano George Horine. Horine capì che bisognava abbandonare la tecnica primordiale di scavalcamento a forbice e nel 1912 fu il primo a superare i 2 metri; ma questa è un’altra storia. Brumel, invece, dopo mezzo secolo raggiunse quindi i 228 cm (con attrezzature e materassi più idonei alle nuove vette). Tutto questo finché il nostro ingegnere americano non capì che se c’era un modo per andare più in alto, questo non poteva che realizzarsi inarcando la schiena sopra l’asticella. Il suo stile fu chiamato “flop”, poi per tutti “Stile Fosbury”. Il ragazzo, sebbene i limiti fisici (a 16 anni non riusciva a saltare nemmeno 1.50m), conosceva bene la materia: bisognava applicare le leggi della fisica e della biomeccanica al gesto tecnico, al corpo in movimento. La rincorsa circolare garantiva il raggiungimento di una velocità maggiore al momento dello stacco, quindi la possibilità di andare più in alto. Sfruttando la torsione e l’inarcamento, poi, il corpo dell’atleta finiva sopra la traiettoria del cosiddetto centro di massa, che restava sotto l’asticella. Sebbene negli anni successivi alcuni atleti continuarono a saltare alla vecchia maniera (soprattutto tra le donne), la strada era stata segnata. Da allora il record della specialità venne continuamente migliorato con lo stile “Fosbury”, fino ai 2.45m stabiliti dal cubano Javier Sotomayor il 23 luglio 1993, tutt’ora imbattuto. Il tetto del mondo femminile è ancora più datato, risalendo al 30 agosto 1987, quando la bulgara Stefka Kostadinova si aggiudicò il titolo mondiale allo stadio olimpico di Roma valicando l’asticella a 209 cm.

Da Fosbury abbiamo imparato che, a volte, a fare le cose alla rovescia ci si azzecca!

Daniele Sottile

orlando pizzolato

un italiano a new YORK

Se c’è un evento dell’Atletica Leggera che segna il mese di novembre, questo si svolge la prima domenica del mese sulle strade di una delle città più affascinati e multiculturali del mondo: New York, dove si corre La Maratona. 42195 metri attraversando i cinque infiniti quartieri della Big Apple, lungo un percorso pieno di visi, colori, musica che non ti lasciano mai da solo; mentre il pensiero del maratoneta va lì, dopo aver attraversato il faticoso  Central Park, sotto quello striscione che ti dice “ce l’hai fatta!”

Sono quei luoghi che ci sono familiari, anche se non ci siamo mai stati, visti e rivisti in film e serie Tv (ricordate gli allenamenti di Dustin Hoffman nel triller “ll Maratoneta”?). E il rapporto degli italiani con la maratona di NY è davvero speciale, essendo ogni anno il secondo gruppo più numeroso con migliaia di partecipanti.

La storia di questo legame nasce nel 1984, quando a vincere è un italiano che gli americani non  conoscono: “Pizzowhat?” Tutti si chiedono… Pizzolato, Orlando Pizzolato, è di Thiene (Vi) e scrive una pagina indimenticabile per l’Atletica italiana. Non è conosciuto alla partenza, ha un numero di pettorale alto e la sua corsa solitaria (dopo aver recuperato e superato il gruppo di testa) per i cronisti è destinata al fallimento, vista la sofferenza che segna il viso dell’atleta e le ripetute soste. Ma Pizzolato ha la forza di reagire e giunge primo al traguardo (2h14’53’’); stremato, al punto che si inginocchia e bacia l’asfalto. E’ la prima volta che un europeo vince a New York, e l’anno successivo Orlando Pizzolato vince ancora (2h11’45’’). Ripetere l’impresa non fu semplice, allo start indossava il pettorale numero “1”, l’uomo da battere. Ma nessuno riuscì.

Da allora, altri  grandi atleti italiani hanno trionfato oltreoceano: Gianni Poli vinse  nel 1986 con il tempo di 2h11’06”, Giacomo Leone s’impose nel 1996 con 2h09’54’’. Tra le donne, Franca Fiacconi, trionfò nel 1998 con  2h25’17”, miglior italiana di sempre.

Poi numerosi piazzamenti prestigiosi, in una gara che con gli anni è diventata sempre più competitiva con l’avvento degli atleti africani. Da ricordare Stefano Baldini, terzo assoluto nel 1997 e quinto nel 2002 con 2h:09’12’’ (miglior tempo italiano di sempre), Gelindo Bordin terzo nel 1989 (a un anno dall’oro olimpico di Seoul) con 2h09’40’’, Salvatore Bettiol secondo nel 1988 (2h11’41’’) che ripete il piazzamento ottenuto da Gianni Demadonna l’anno prima. Tra le donne, oltre alle imprese di Franca Fiacconi, spiccano i podi di Laura Fogli: seconda nel 1985 con 2h’31’49’’, terza nel 1988 con 2h29’44’’, seconda nel 1989 (2h31'26") e ancora terza  nel 1990 (2h28'43"); infine le quinte piazze di Bruna Genovese nel 2005 (2h27’15”) e di Valeria Straneo nel 2013 (2h28’22”).

Orlando Pizzolato, terminata la carriera agonistica (è stato anche vice campione europeo a Stoccarda con 2h10’57’’), ha continuato ad occuparsi di maratona: negli ultimi anni ci ha commentato per la Rai le migliori 42km italiane in sella alla sua bici e ci racconta quello che accade a New York ogni prima domenica di novembre. Inoltre, è impegnato nella diffusione della pratica della corsa: punto di riferimento per tanti atleti amatori e master e, soprattutto, promotore e finanziatore di una borsa di studio per la tutela dei giovani mezzofondisti.

Daniele Sottile

Fanny  Blankers Koen

la “mammina volante”

Le immagini di Londra, dei favolosi Campionati Mondiali di Atletica Leggera (per nulla favolosi per la squadra azzurra) sono ancora fresche nella nostra memoria: abbiamo assistito a delle gare dall’altissimo contenuto tecnico e a delle sfide entusiasmanti che hanno visto protagoniste donne straordinarie per abilità, temperamento, agonismo e bellezza atletica. Nell’epoca in cui viviamo, lo sport femminile è alla pari di quello maschile, o quasi diciamo. E questo è il risultato di un lungo e sofferto percorso di emancipazione attraverso il quale le donne hanno conquistato pari diritti nello sport e nella società. Un risultato, va detto, non del tutto pieno, in alcuni ambiti e soprattutto in alcune aree del mondo a causa di resistenze di natura culturale e religiosa.

Nell’Atletica Leggera, un contributo importante a tale causa l’ha dato Fanny Blankers Koen. Nata in un paesino vicino Amsterdam il 26 aprile 1918, fin da giovanissima mise in mostra le sue eccezionali doti atletiche, praticando molti sport prima di approdare alla “Regina”. 175 cm per 63 kg e grande versatilità: nel 1935 stabilì il primato nazionale olandese degli 800m, una distanza inaudita per una donna a quei tempi; poi si dedicò alla velocità, agli ostacoli e ai salti primeggiando, nel dopoguerra, a livello mondiale. Già nel 1938, a soli vent’anni, stabilì il suo primo record del mondo: 11” nei 100 yards. Agli Europei di Vienna del 1938 conquistò due bronzi (100m e 200m).  Poi la guerra, il matrimonio con il triplista Jan Blankers e la nascita dei figli fecero pensare ad una fine prematura della carriera atletica di Fanny. Ma la coppia Blankers-Koen non era di questo avviso e lo dimostrò negli anni successivisi può gareggiare a dispetto della maternità, e lo si può fare addirittura ad altissimi livelli. Infatti, dal 1943 al 1948 divenne primatista mondiale dei 100m, degli 80hs, del salto in alto e del salto in lungo, contro le previsioni di tutta la stampa nazionale e non, che già non vedeva di buon occhio la partecipazione di una mamma all’attività agonistica.

La cultura dell’epoca, difatti, assegnava alla donna un ruolo ben preciso: doveva occuparsi dell’educazione figli e della gestione della casa. Il resto era compito degli uomini. Se guardiamo al nostro paese, per esempio, le donne poterono votare per la prima volta solo nel 1946! Si usciva dalla guerra e dalla dittatura fascista che attribuiva alla donna il compito di fare figli per “la patria”, obbligandola a rinunciare alla realizzazione di se stessa attraverso il lavoro e la partecipazione alla vita pubblica: per legge, le donne percepivano una paga inferiore rispetto agli uomini e avevano minori possibilità di accesso agli impieghi pubblici.

Contro ogni pregiudizio, quindi, Fanny Koen si presentò alle Olimpiadi di Londra del 1948, e fu la sua consacrazione. Avrebbe potuto cimentarsi su numerose specialità, ma il regolamento a cinque cerchi imponeva non più di tre prove individuali: così corse gli 80 ostacoli, i 100 metri, i 200 metri e la staffetta 4×100. Furono quattro ori con tre Record olimpici sulle prove individuali: 11.9 sui 100m, 24.2 sui 200m e 11.2 sugli 80hs. Due anni dopo, ai campionati Europei di Bruxelles, vinse ancora l’oro nelle tre gare individuali e l’argento nella staffetta 4*100m.

Abbandonate le gare, guidò la nazionale di atletica olandese. Il suo ultimo momento di gloria fu nel 1999, quando fu dichiarata "Atleta femminile del secolo".

Gli ultimi anni di vita, segnati dall'Alzheimer, li trascorse in una clinica psichiatrica. Morì ad 85 anni.

Daniele Sottile

ANNARITA SIDOTI

la “piccola grande” donna

Osservando i fenomeni della natura, capita, a volte, di chiedersi come possa stare tanta energia in così poco spazio. Come strutture estremamente gracili siano capaci di produrre una forza o sopportare sforzi smisurati. Queste riflessioni mi rimandano inevitabilmente al ricordo che ho di Annarita Sidoti. La vidi gareggiare un giorno, dal vivo, alle Universiadi 1997 (le olimpiadi degli universitari) svoltesi a Catania: era davvero minuscola, ma strepitosa! 150 cm per 42 kg, numeri che non le impedirono di affrontare qualunque avversaria sulle strade e sulle piste di tutto il mondo.

Nata a Gioiosa Marea (in provincia di Messina) il 25 luglio 1969, scopre la marcia grazie all’intuito del suo insegnante di educazione fisica delle medie e affina il suo talento sotto la guida del professor Coletta. A 19 anni partecipa ai Campionati Mondiali Juniores in Canada dove si classifica quarta nei 5000m di marcia, due anni dopo (1990) vince il bronzo nella gara dei 3 km ai Campionati Europei Indoor di Glasgow (12’27’’94). Solo qualche mese dopo domina all’aperto nella rassegna continentale di Spalato: campionessa europea sui 10 km di marcia, successo che le assegna, seppur giovanissima, il ruolo di grande atleta e, da lì in poi, punto di riferimento per tutto il movimento della marcia femminile italiana.   

I numeri raccontano Annarita Sidoti: 47 presenze in nazionale, tre partecipazioni olimpiche e sei ai campionati Mondiali. Dopo Spalato vince ancora l’oro agli Europei indoor (Parigi 1994), sui 10 km alle Universiadi di Fukuoka (1995) e agli Europei di Budapest (1998). Medaglia d’argento, sempre sui 10 km, agli europei all’aperto di Helsinki 1994 e ai Giochi del Mediterraneo del 1997. Il 1997 è l’anno d’oro per Annarita: campionessa mondiale sui 10km di marcia ad Atene con 42’55’’49. Due le medaglie di bronzo: alle Universiadi di Buffalo (1991) e Catania (sempre 1997). Dieci volte campionessa italiana, spaziando dai 3 a 20 km di marcia.

La vita sportiva ha regalato tante soddisfazioni ad Annarita Sidoti, che sul finire della carriera ha profuso il suo impegno nel sociale e nello sport, anche attraverso la politica. Sono queste le nuove sfide per la piccola siciliana, ma non farà in tempo a portarle a termine. Nel 2009 si ammala di tumore, lotterà con tutta la sua forza per sconfiggere la malattie, tra cure e dolorose operazioni, fino ad arrendersi il 21 maggio del 2015. Un recente docu-film , dal titolo “Una storia semplice” racconta la sua vita.

Quando penso alle emozioni che l’atletica leggera sa dare, mi tornano in mente gli occhi sorridenti di Annarita Sidoti al traguardo di Atene.

Daniele Sottile

BOB BEAMON e IL SALTO INFINITO

“Dimmi che non sto sognando! Dimmi che non sto sognando!”, così continuava a ripetere al proprio compagno di squadra - e forse a se stesso - in preda ad una gioia irrefrenabile, dopo aver visto cosa aveva appena fatto: 8.90m. 8 metri e 90 centimetri, la miglior misura mai realizzata nel salto in lungo.

Lui è Robert “Bob” Beamon, 190cmx75kg,  un atleta statunitense nato il 29 Agosto 1946 nello stato di New York, un’infanzia difficile per aver perso la madre a causa della tubercolosi (ad appena a otto mesi di vita) e l’inquietudine di un ragazzo afro-americano che lotta contro la discriminazione razziale che da molti anni tormentava il suo paese. Pur avendo ottenuto una borsa di studio per le sue straordinarie qualità atletiche, questa gli fu tolta per essersi rifiutato di partecipare ad una gara organizzata dalla Brigham Young University, un ateneo mormone che discriminava le persone di colore.

Bob dovette affrontare molte difficoltà per affermarsi, ma il suo talento era tale che giunse alle Olimpiadi di Città del Messico (1968) con tutti i pronostici a suo favore. I due avversari più temibili erano il connazionale Ralph Boston  e il russo  Igor Ter-Ovanesyan, capaci di aver stabilito il primato del mondo con la stessa misura: 8.35m; ma quel giorno gli occhi erano tutti puntati su Beamon. Erano le 15.45 di quel 18 ottobre 1968, era piovuto fino a poco prima e tirava vento a favore (i salti dei primi tre atleti erano stati nulli) e Bob Beamon si preparava alla ricorsa del suo primo salto di quella finale olimpica: rincorsa veloce, stacco perfetto, volo…infinito…Al punto che i giudici dovettero ricorrere ad una misurazione manuale perché il salto era al di fuori della portata delle strumentazioni elettroniche di allora. Al termine di una lunga e snervante attesa apparve sul tabellone: 8.90m! Bob cominciò a saltare e urlare dalla felicità, lui stesso incredulo. Mai visto qualcosa del genere, 55 cm in più di quel 8.35m. I salti successivi di quella finale furono poco significativi: il tedesco Klaus Beer  fece 8.19m, il bronzo andò  a Boston (8.16m), misure minuscole rispetto all’impresa di Beamon.

Tutto era stato scritto sul salto in lungo: questa fu la sensazione durante quella gara e negli anni successivi. L’8.90m di quel pomeriggio a Città del Messico - combinazione di talento straordinario, vento a favore ai limiti del consentito, aria rarefatta dei 2300 metri  di altitudine e “quella cosa che ti riesce una volta in tutta la vita” – fu considerata una misura mai più raggiungibile e lo stesso Beamon perse  carica agonistica e motivazione, saltando su misure più modeste nelle manifestazioni successive. Bisognerà aspettare fino al 1991, quando in occasione dei Campionati Mondiali di Tokyo, si assisterà, forse, alla più bella gara di salto in lungo della storia. La sfida “all’ultimo salto” tra i due statunitensi Carl Lewis e Mike Powell, vinta da Powell con 8.95m, regalerà il nuovo primato mondiale. Il record stabilito da Beamon durò quindi ben 23 anni e, attualmente (a quasi 50 anni), è ancora il record olimpico.

Daniele Sottile 

JAN ŽELEZNY’, UN GIAVELLOTTO NEL DNA…

Capita, a volte, di avere il futuro già scritto nel proprio patrimonio genetico: un percorso già tracciato che porta un individuo a diventare il migliore al mondo in quello che fa. E’ quanto  accaduto a Jan Železný, il più grande giavellottista di tutti i tempi, che negli anni novanta ha riscritto la storia tiro del giavellotto. Perché per Železný l’attrezzo è proprio di casa, essendo figlio di due giavellottisti e con il padre suo primo allenatore. Nato il 16 giugno 1966 in Cecoslovacchia (così si chiamava fino al 1992), inizia a praticare altri sport, il calcio come molti bambini e la pallamano: leggenda vuole, che proprio giocando a pallamano, con un tiro mandò “al tappeto” il portiere della squadra avversaria. Il futuro non potrà essere che il campo di atletica.

Non è solo genetica, però. La prestigiosa carriera di Jan è fatta di grandi sacrifici, allenamenti rigorosi e stile di vita sobrio anche fuori dal campo. Fin dal 1987, quando ancora ventenne sorprende il pubblico dello stadio olimpico di Roma con un tiro da 87.66 m: sono i Campionati Mondiali di Atletica e la medaglia – la prima di una lunga serie – è di bronzo. L’anno successivo, alle olimpiadi di Seul, farà ancora meglio, conquistando la medaglia d’argento con 86.88 m.

Poi qualche anno difficile, con alcune controprestazioni, seguito da un rientro imperioso ai massimi livelli mondiali, grazie al duro lavoro eseguito per migliorare la tecnica. E’ il 1992, Giochi Olimpici di Barcellona e Jan centra il massimo risultato possibili: medaglia d’oro con 94.74 m. Dalla rassegna a cinque cerchi spagnola sarà una serie di successi strepitosi: Oro ai Mondiali di Stoccarda (1993) e di Goteborg (1995), Bronzo agli Europei di Helsinki (1994), Oro alle Olimpiadi di Atlanta (1996). Nel 1998, un serio infortunio alla spalla e una frattura vertebrale fanno pensare alla fine della carriera del giavellottista ceco. Ma non sarà così. A Siviglia, ai Campionati Mondiali (1999) vince il bronzo con 87.67 m. E’ solo l’antipasto di un’altra doppietta favolosa centrata nei due anni successivi: i due titoli, olimpico e mondiale, conquistati a Sidney (2000) e Edmonton (2001). Negli anni successivi, nonostante il naturale declino per un atleta maturo, Železný resta uno dei migliori giavellottisti a livello mondiale: quarto ai Mondiali di Parigi (2003), nono ad Atene (Olimpiadi 2004) e medaglia di bronzo agli Europei di Goteborg (2006), con la misura di 85.92 m a quarant’anni.

Jan Železný è stato senza dubbio un atleta eccezionale. Oltre alle innumerevoli medaglie vinte, le statistiche ci danno numeri impressionanti: dal 1991 al 2001 ha ottenuto 106 vittorie su 135 gare, scagliando il giavellotto oltre i 90 metri per 34 volte. Ha migliorato il record mondiale per cinque volte, fino alla misura di 98,48 metri, ottenuta il 25 maggio 1996 a Jena: tutt'oggi imbattuta. Oggi, Jan è un pimpante cinquantenne, che trascorre le giornate sui campi di atletica, allenando i suoi figli e i suoi atleti…

Daniele Sottile

PAUL TERGAT, IL RE DEL CROSS COUNTRY

 

Inizia un anno nuovo e una nuova stagione agonistica, ed è tempo di preparare le scarpette chiodate per affrontare le gare di cross country… o corsa campestre se preferite. La specialità delle tre “F”, come si usava dire un tempo: freddo, fango e fatica. Sfogliando gli annuari e le riviste di un tempo ci si imbatte in personaggi mitici (ritratti ricoperti di fango su foto ingiallite), che hanno calcato i terreni delle più importanti competizioni mondiali, sui prati della Gran Bretagna (lì dove oltre un secolo fa il cross – country è nato) oppure sbucando da uno dei mulini di San Vittore Olona (paesino del milanese), dove da più di ottant’anni si corre la celebre “5 Mulini”. Se c’è un atleta che forse più di altri è stato interprete esemplare di questa specialità, questo è Paul Tergat.

Nato il 17 giugno 1969 in Kenia, nella leggendaria Rift-valley, Paul inizia tardi a praticare l’atletica, aveva 22 anni e faceva parte dell’esercito Keniota: convinto dai suoi commilitoni e segnalato al comando, diventa rapidamente uno dei migliori atleti del suo paese, vincendo nel 1992 i Trials  di cross. Lo stesso anno conosce il medico-allenatore Gabriele Rosa, ideatore di un progetto che permette ai talenti africani di allenarsi con metodi scientifici e gareggiare in giro per il mondo (migliorando la condizione economica propria e dei loro familiari). Sotto la guida del nuovo allenatore italiano, per Paul Tergat inizia un decennio di straordinari successi, record mondiali su svariate distanze, ma anche cocenti sconfitte, come vedremo.

Me lo ricordo ancora. Catania, una calda domenica mattina di primavera, a metà degli anni novanta. Eseguivo il mio riscaldamento, prima di affrontare la piatta e velocissima 12 km del Vivicittà (gara su strada che si svolge in contemporanea in più città nel mondo), quando incrocio questa figura d’ebano filiforme, 182cmx58 kg: rimasi imbambolato a guardarlo, era proprio lui, Paul Tergat. Ci saremmo trovati poco dopo dietro la stessa linea di partenza, uno affianco all’altro, ma solo fino allo sparo dello starter, ovviamente. Tergat vinse la gara e stabilì il miglior crono delle 12 km corse quel giorno per il Vivicittà.

Sintetizzare le imprese di Paul Tergat non è cosa facile. Di sicuro, la sua impronta più importante l’ha lasciata sui prati dei Campionati Mondiali di Cross: 5 volte sul gradino più alto, dal 1995 al 1999; solo l’etiope Kenenisa Bekele riuscirà a ripetere tale sequenza, dal 2002. Ma questa è un’altra storia.

Su strada Tergat è stato  campione mondiale sulla mezza maratona (nel 1999  e nel 2000), ha vinto per sei volte consecutive la Stramilano (dal 1994 al 1999) e nell’edizione 1998 ha stabilito la miglior prestazione mondiale sulla 21.097 (59’17’’). Questo risultato cronometrico e la grande capacità di tollerare grossi volumi di allenamento portarono Tergat a specializzarsi, dal 2001, sulla doppia distanza: la maratona, la vera “prova” per chi ama correre a lungo. Nel 2003, a Berlino, Paul Tergat stabilisce la migliore prestazione mondiale (poi chiamato record del mondo) sulla maratona: 2.04’55’’, il primo uomo a scendere sotto i 125 minuti! Nel 2005 vincerà a New York, “La Maratona”.

Su pista, le vicende agonistiche di Tergat sono state un po’ complicate: pur stabilendo il record del mondo sui 10.000 m, 26’27’’85 a Bruxelles nel 1997, ha sempre trovato avversari temibilissimi, per non dire “spietati”: uno su tutti Haile Gebrselassie, capace di sprintare al termine dei 25 giri come fosse un quattrocentista e lasciando poche possibilità di successo a chiunque.  Succede alle olimpiadi di Atlanta, finale dei 10.000 m, dove Paul deve cedere alla velocità di “Gebre”; e lo stesso accade quattro anni dopo a Sidney, sempre sui 10.000 m, dove i due, giunti allo sprint, arrivano simultaneamente sul traguardo. Solo 9 centesimi tolsero l’oro olimpico a Tergat, incoronando ancora una volta l’acerrimo avversario etiope (27’1″”20 a 27’18″29). Chi considera il mezzofondo noioso, farebbe bene a rivedersi quella gara su internet. Ai campionati mondiali, sempre sui 10.000 m, giunge terzo a Goteborg (1995), e due argenti, Atene (1997) e Siviglia (1999).

Su finire della sua carriera Paul Tergat  è stato nominato ambasciatore del W.F.P. (programma mondiale contro la fame nel mondo) e ancora oggi è impegnato nelle politiche che assicurano pasti alle mense scolastiche dei bambini africani.   

Daniele Sottile

Robert Korzeniowski:

lavoro, pazienza e determinazione

Tra gli atleti che praticano il nostro amato sport, ce ne sono alcuni che hanno un rapporto speciale con la strada, luogo che, per antonomasia, è più di altri metafora della vita: quanti pensieri, sogni, dialoghi con se stessi lungo quella linea infinita che delimita la carreggiata, e che segna anche migliaia di chilometri “macinati” per giorni, mesi, anni. Questo vale per gli atleti di mezzofondo prolungato, per i maratoneti e soprattutto per i marciatori: per gli artisti del “tacco e punta” il legame con la strada è ancora più intimo, per la durata delle sedute di allenamento o le distanze di gara, ma soprattutto per l’obbligo – per tecnica e per regolamento – di rimanere sempre a contatto con il suolo.

Robert Korzeniowski è uno di loro, un atleta eccezionale nel corpo di un uomo normale: minuto, non raggiunge i 170 cm di altezza, soffre d’asma. Eppure è uno dei marciatori più forti di tutti i tempi, di sicuro il più medagliato: 4 medaglie d’oro olimpiche consecutive, 3 ori e 1 bronzo ai Mondiali e 2 ori agli Europei.

Korzeniowski è nato il 30 luglio 1968 a Lubaczow, in Polonia. Da bambino, affascinato dalle arti marziali, praticò il judo, ma l’esperienza durò solo pochi anni. Giunto al liceo, l’incontro folgorante con l’Atletica Leggera e con la marcia: il suo allenatore gli propose di marciare per un giro di pista e di lì non ha smesso più, divenendo da subito uno dei migliori marciatori polacchi e conquistando la convocazione ai Campionati Europei  Juniores di Birmingham (1987). L’esordio europeo fu fallimentare (non portò a termine la gara per squalifica) e anche i primi anni della carriera ebbero fasi alterne, seppur con qualche discreto piazzamento (e le due vittorie sulla 20km alle Universiadi 1991 e1993), ma una tecnica non perfetta che spesso gli pregiudica l’esito della gara. Come avvenne a Barcellona (Olimpiade del 1992) dove partecipò alle due gare in programma: sulla 20km si ritirò, nella 50km venne squalificato a 400m dall’arrivo (aveva ricevuto addirittura 5 proposte di squalifica di cui però nessuna gli fu mostrata) quando aveva l’argento in tasca. Se si pensa ai sacrifici di una preparazione olimpica (di una 50 km di marcia!), è facile credere che chiunque non avrebbe avuto la forza di ricominciare. Ma per Korzeniowski, oltre che di resistenza, si può parlare di resilienza (prendendo in prestito un termine dalla psicologia), capace quindi di reagire positivamente di fronte ad una situazione disastrosa, almeno da un punto di vista sportivo.

Ad Atlanta, nell’olimpiade del centenario (1996), il riscatto: ancora una volta senza paura, gareggiò su entrambe le distanze, ma stavolta con esiti diversi: sulla 20km arrivò 8°, mentre sulla 50 km vinse il suo primo oro Olimpico con 3h43’30”. Da quel successo, le medaglie d’oro sulla gara dei 50 km di marcia, di tutte le competizioni più importanti (Olimpiadi, Campionati Mondiali, Campionati Europei), saranno sue: imbattibile e imbattuto per 8 anni di seguito! Come Bolt, sulla gara dei 100m, ma non con la stessa attenzione dei media, né sponsor, né contratti stellari.

Ai Giochi Olimpici di Sidney 2000, con la “complicità” dei giudici, gli riesce qualcosa di unico: partecipò  alla 20km e arrivò secondo, ma il messicano che lo aveva preceduto venne squalificato dopo il traguardo e così con il tempo di 1h18’59” (nuovo Record Olimpico) Robert vinse la prima medaglia d’oro su questa distanza. Dopo qualche giorno mise a segno la seconda vittoria olimpica sui 50km. Una doppietta formidabile!!

Nel 2001, Mondiali a Edmonton, è ancora primo sulla sua distanza preferita, per ripetersi l’anno dopo agli Europei di Monaco, dove stabilì il nuovo record mondiale (3h36’39”); abbassato ancora una volta ai Campionati Mondiali di Parigi (2003), chiudendo in  3h36’03” (ovviamente ancora oro).

Ai Giochi Olimpici di Atene (2004) l’atto conclusivo di una carriera formidabile: stravinse con 4′ di distacco con il tempo di 3h38’46”.

Robert Korzeniowski, ritiratosi dall’attività, ha continuato ad occuparsi di atletica, come allenatore e nell’ambito della promozione, oltre ad essere capo redattore sportivo di una TV polacca dal 2004, ha il ruolo di consulente marketing per l’UEFA dal 2009.

Nella società del “tutto e subito” nella quale viviamo oggi, le vicende di Korzeniowski possono insegnarci molto.

Daniele Sottile

Pietro Mennea, la “Freccia del Sud”

12 Settembre 1979, Città del Messico, Giochi Mondiali Universitari. Sulla pista dello stadio messicano si svolge la finale della gara dei 200m piani. Ad occupare la IV corsia c’è un atleta italiano, piccolo rispetto ai colossi della velocità (1.79 x 68 kg), ma con una determinazione straordinaria e la consapevolezza di essere lì per entrare nella leggenda: Pietro Mennea taglia il traguardo per primo, guarda il tabellone dello stadio che riporta il  suo risultato ed esplode di gioia. 19”72, record mondiale! Diciannove secondi e settantadue centesimi, record mondale!

Mennea preparò quella gara meticolosamente, selezionando accuratamente gli appuntamenti agonistici di quell’anno, raggiungendo  Città del Messico con anticipo per adattarsi alle condizioni climatiche e altimetriche e puntando esclusivamente alla “sua” distanza (duecento metri). Quel giorno, poi, si crearono le condizioni perfette, quelle della “gara della vita”: sul rettilineo finale il vento spirava a 1.8 m/s, gli altri finalisti erano di livello buono ma non eccellente, al punto che Mennea si concentrò  nella sfida con l’avversario più temibile: il cronometro.

 Con il 19.72 abbatteva il record mondiale precedente stabilito sulla stessa pista, undici anni prima, da Tommie (Tommie –Jet) Smith. Proprio quel Tommie Smith che per Pietro Mennea  rappresentava un idolo,  che aveva visto in televisione (alle olimpiadi in Messico del 1968) salire sul podio a piedi scalzi, con il pugno alzato chiuso in un guanto nero, in segno di protesa e in difesa degli afro-americani (proprio nello stesso anno veniva ucciso Martin Luther King).

Perché per Pietro Mennea l’atletica, lo sport, fu proprio l’occasione del riscatto, come per gli atleti americani di colore.

Mennea, infatti, nasce a Barletta  il 28 giugno 1952, da una famiglia di origini umili. In quegli anni, nel Sud d’Italia, non era semplice praticare sport, tantomeno emergere, soprattutto se si viveva in una famiglia con pochi mezzi economici (bisognava studiare e lavorare e non perdere tempo con gli allenamenti). Ma il talento e la determinazione di Pietro hanno la meglio, permettendogli di raggiungere presto ottime prestazioni, grazie anche al trasferimento a Formia sotto la guida del prof. Carlo Vittori (guru della velocità).  

Nel 1971, a soli 19 anni, giunge sesto ai campionati europei nella gara dei 200m e vince il bronzo nella 4*100m. L’anno successivo, Olimpiadi di Monaco, vince il bronzo nei 200m. Nel 1974, Campionati Europei di Roma: oro nei 200m, argento nei 100m e nella 4*100m. Seguono anni difficili per il campione pugliese, che torna a mani vuote dal Canada (1976) dove il pubblico italiano si aspetta da lui ancora una medaglia olimpica.

Nel 1978 il riscatto: agli Europei di Praga fa doppietta vincendo 100m e 200m e nella rassegna europea indoor si aggiudica anche la gara dei 400m.

Il 1979, come già detto, è l’anno della consacrazione con quel record mondiale sui 200m che durerà fino al 1996, quando Micheal Johnson fermerà il cronometro a 19”32. Il 19”72 resta record europeo, e lo è ancora oggi.

 L’anno successivo, all’olimpiade di Mosca (quella boicottata dal “blocco occidentale”, in piena guerra fredda) Mennea si aggiudica l’oro nei 200m per soli 2 centesimi di secondo (20”19 e 20”21) e anche il bronzo con la staffetta 4×400 m. Nel 1981 annuncia il suo ritiro, ma torna sui propri passi l'anno dopo e nel 1983 stabilisce il primato mondiale dei 150 m piani, con 14"8 sulla pista dello stadio Comunale di Cassino: questo primato è ancora imbattuto, perché il tempo di 14"35 stabilito nel 2009 da Usain Bolt a Manchester non è stato omologato dalla Federazione in quanto stabilito su pista rettilinea.

Nello stesso anno, ai Campionati Mondiali di Helsinki, vince la medaglia di bronzo nei 200 m e quella d'argento con la staffetta 4x100. Un anno dopo, scende in pista per la sua quarta finale olimpica consecutiva dei 200 m (giunge settimo), primo atleta al mondo a compiere tale impresa. Pur annunciando l’ennesimo ritiro, prende parte alle olimpiadi di Seoul del 1988. Qui corre solo il primo turno dei 200m, ma per Mennea è la quinta partecipazione olimpica e la chiusura di una carriera straordinaria.

Oltre alla carriera sportiva, Mennea ha conseguito quattro lauree (Giurisprudenza, Scienze Politiche, Lettere, Scienze Motorie), scritto 20 libri, lavorato come avvocato, curatore fallimentare, docente universitario. E’stato eurodeputato e ha fondato con la moglie la “Fondazione Pietro Mennea” che opera nell’ambito dell’assistenza ai più deboli. Il 21 marzo 2013, Pietro Mennea muore, dopo aver lottato con una terribile malattia.

Tutti quelli che amano l’Atletica Leggera lo ricordano ogni anno il 12 settembre, la data che ha segnato la storia del mezzo giro di pista.

Daniele Sottile

 

 

JIM THORPE

IL PRIMO DECATLETA

Continua il nostro viaggio nella storia dell’Atletica Leggera con un salto nel passato di oltre cento anni, quando -  possiamo affermarlo – nasce il decathlon moderno, grazie alle gesta di uno dei più forti e completi atleti mai esistiti: “Sentiero Lucente”, all’anagrafe James Francis Thorpe. E’ il mese di Luglio del 1912, le Olimpiadi si tengono a Stoccolma, e proprio nei giorni in cui sto scrivendo, Jim Thorpe, l’indiano d’America, domina la prima “edizione” della più impegnativa delle prove multiple. Furono, infatti, gli svedesi ad introdurre il decathlon con la formula che conosciamo oggi, solo che si svolgeva in tre giorni anziché due.

Ma andiamo a conoscere la storia di questo atleta. Nato in una riserva indiana, ma di sangue misto – entrambi i genitori avevano madri native americane e padri europei – Jim  Thorpe fu cresciuto come un pellerossa. Da piccolo, infatti, vive nei boschi della riserva, esperienza che, probabilmente, sviluppa in lui grandi qualità atletiche, ma si avvicina allo sport attraverso la scuola. Qui si distingue dai coetanei per la struttura fisica imponente  e per l’attitudine a tutte le discipline sportive. Il piccolo “Sentiero Lucente” è un ribelle, ma grazie al suo insegnante e allenatore Glenn Warner entra nella squadra di atletica della Carlisle High School, e comincia a giocare a calcio, football e a baseball. E vince, tutto.

Ma è nell’Atletica leggera che trova la sua consacrazione: vince i Trials e accede alle olimpiadi svedesi in quattro specialità: pentathlon, salto in lungo, salto in alto e decathlon (per la prima volta introdotto, appunto).  Comincia così l’incredibile avventura di Sentiero Lucente, con un viaggio in nave, una lunga traversata atlantica che lo porterà al trionfo. Erano anni in cui questi viaggi seguivano la rotta opposta. Milioni di persone, quasi sempre povere e senza futuro, si imbarcavano dall’Europa – tanti dall’Italia – affrontando lunghi viaggi in mare, in condizioni disumane, nella speranza di una vita migliore. Quando Thorpe giunge in Svezia, è ancora vivo il ricordo della tragedia del Titanic, affondato nell’Aprile dello stesso anno.                                                                                                 

A Stoccolma nel suo primo giorno di gara, Thorpe vince  la medaglia d’Oro nel Pentathlon con quattro vittorie (lungo, 200m, disco e 1500m) e un terzo posto (giavellotto). Il giorno successivo si classifica al quarto posto nel Salto in Alto e quattro giorni dopo gareggia nel  Salto in Lungo dove arriva settimo.

Ma il momento del trionfo giunge qualche giorno dopo, nel Decathlon. Il 13 Luglio 1912, Sentiero Lucente ottiene il terzo tempo nei 100 metri (11″2), la terza misura nel salto in lungo (6.79) e il miglior lancio nel getto del peso (12.89). Il 14 Luglio 1912, vince il salto in alto (1.87), ottiene il quarto tempo nei 400 metri (52″2), la terza misura nel disco (36.98) e il miglior tempo nei 110 hs (15″6). Il 15 Luglio 1912, nell’ultima giornata del suo primo e unico Decathlon della carriera, Jim Thorpe conclude le sue fatiche saltando 3.25 nel salto con l’asta (terzo), ottenendo la quarta misura  nel giavellotto (45.70) e chiudendo al primo posto i 1500 metri in 4’40″1. E’ un vero trionfo!

Al rientro negli U.S.A., Jim è accolto come un eroe, ma il suo momento di gloria dura poco, e il suo sentiero lucente (come il nome indiano datogli dalla madre) è destinato ad adombrarsi. Dopo essere stato  accusato  di professionismo, per aver giocato a Baseball in una squadra pro, il Cio cancella a Jim tutti i risultati e tutti gli onori. Non serviranno le scuse ufficiali, né l’ammissione di colpa. “Sentiero lucente”, amareggiato dallo scandalo che lo ha rovinato, ripiega sul baseball, carriera con cui manterrà sé e la famiglia fino al 1929. Dopo il ritiro finisce a fare il carpentiere a Los Angeles. Nel 1952 scopre di avere un tumore. I medici non riescono a fare niente: il suo cuore, minato dall’alcol, cede a un infarto il 29 marzo 1953. Jim muore nella roulotte dove vive, alla periferia di Los Angeles. Solo nel 1982, Thorpe fu riabilitato dal Comitato Olimpico per vizi procedurali nella sua squalifica: ai suoi familiari vennero restituite le medaglie.

Daniele Sottile.

Raffaele Di Maggio: “In tante cose vado piano, ma nella corsa sono io il più bravo”

La seconda uscita della nostra rubrica non parla al passato, ma focalizza l’attenzione sul presente e, speriamo, sul futuro dell’atletica leggera. Fin da subito, quindi, infrangiamo la regola che vuole la celebrazione di un mito del nostro sport del quale descrivere le gesta straordinarie: usciamo volutamente dallo schema, dalla strada segnata, perché ci piace farlo e per seguire una vicenda che ci appassiona e ci fa sperare. E’ la storia di Raffaele Di Maggio, il 15enne più veloce della storia dell’atletica italiana. Corre forte e corre tanto perché “è la cosa che mi piace di più e che so fare meglio”, dice con semplicità. Lo scorso 16 marzo ha vinto i campionati del mondo sui 60 metri Inas, riservati alle persone con disabilità intellettiva. Il suo tempo (7 secondi e 11 centesimi), però, aveva qualcosa di straordinario: è il miglior crono di sempre fatto segnare da un atleta azzurro a livello giovanile.La storia del ragazzo disabile che corre tra i paralimpici ma batte i record nazionali dei normodotati nasce in Sicilia, in una scuola media in provincia di Palermo.

Ancora una volta, una bella storia che parte dalla provincia, da luoghi in cui è già difficile vivere; e dalla “disastrata” Scuola Pubblica, dove trovi persone che fanno la differenza. Il merito, infatti, è anche di Orazio Scarpa, professore di educazione fisica e insegnante di sostegno, allenatore e punto di riferimento. Nell’istituto comprensivo di Carini dove lavora, nel settembre 2013 si ritrova in classe Raffaele. L’alunno è affetto da un deficit intellettivo-relazionale lieve, oltre a una dislessia molto accentuata che lo rallenta nell’apprendimento. Memoria limitata, disorientamento nella lettura e nella comprensione di testi anche non complessi, scarsa capacità di concentrazione sono le principali manifestazioni della disabilità. A scuola lo avevano accettato di buon grado, ma lui sentiva addosso il marchio della diversità, racconta il suo insegnante.

La svolta avviene quasi per caso. “Un giorno – ricorda Scarpa – l’ho portato in palestra, per svagarsi un po’. Era goffo nei movimenti, non riusciva a palleggiare col pallone, però mi sono accorto che aveva una grande potenza di corsa. Così abbiamo cominciato a farlo spesso: pensavo che lo sport potesse aiutarlo, non immaginavo certo che saremmo arrivati a questi livelli”. Nel 2015 Di Maggio ha vinto i Giochi studenteschi nazionali.È anche il successo a cui è più legato Raffaele, 15 anni da compiere il prossimo 23 giugno: “È stata la mia gara più bella, non me l’aspettavo proprio di poter arrivare davanti a tutti. È successo così, all’improvviso”, Poi progressi continui, fino al successo ai mondiali Inas di marzo. Il futuro, infatti, è ancora tutto da scrivere. L’atletica lo ha già aiutato tanto nella sua crescita umana: “Viaggiare, vedere gente e posti nuovi gli è servito per aprirsi”, spiega Scarpa. E soprattutto sentendosi finalmente valorizzato è riuscito a prendere consapevolezza e fare i conti con la sua condizione: ha capito di essere diversamente abile. Dice ora: “In tante cose vado piano, ma nella corsa sono io il più bravo”. Per la mamma e tutta la famiglia – provata da mille difficoltà (anche la sorella è affetta da una grave disabilità psico-motoria) e da sempre dedita ai figli – è stata una grande gioia, dopo anni di sofferenze e sacrifici. Raffaele ha ripetuto la terza media e frequenterà l’istituto agrario, condividendo con il papà giardiniere la passione per la natura. Ma più forte ancora è quella per la corsa: “Nella vita vorrei fare l’atleta seriamente, magari in nazionale, magari alle Olimpiadi“, dice sorridendo, con la sua cadenza siciliana. Auguriamo a Raffaele di realizzare i suoi sogni e di continuare ad avere intorno a sé persone in grado di valorizzare le sue abilità.

 

Daniele Sottile

 

Parte del contenuto di quanto scritto è tratto da “Il Fatto Quotidiano” del 22 aprile.

Wilma Rudolph, il 1° personaggio della nuova rubrica

NOVITA'

E' stata creata una nuova rubrica seguita dal nostro tecnico Daniele Sottile e sarà dedicata ai campioni del passato dell'Atletica Leggera. Nelle "Storie di Atletica" troverete il primo personaggio. Buona lettura.

Il primo personaggio che conosceremo è Wilma Rudolph, la “gazzella nera”.

La storia di Wilma Rudolph ha decisamente qualcosa d’incredibile: sembra di leggere una fiaba o un commovente­ romanzo. Wilma Rudolph nacque nel 1940 da un parto prematuro a Clarksville (U.S.A.). Il padre Ed era impiegato come facchino nelle ferrovie mentre Blanche, la madre, lavorava come cameriera presso una famiglia bianca, nel periodo della segregazione razziale. Wilma, ventesima dei ventidue figli del padre e sesta degli otto della madre, fu colpita durante l’infanzia da una polmonite doppia e rischiò di morire, poi contrasse la poliomielite: «Il medico disse a mia madre che non avrei più camminato – ha raccontato Wilma Rudolph nella sua autobiografia – ma mia madre non ci volle credere e mi disse che sarei guarita. Finii per credere a mia madre». Tuttavia, nell’America degli anni ’60, trovare un ospedale disposto a curare una bambina nera con la polio era un’impresa quasi impossibile: l’unico disponibile si trovava a più di 80 km, dove operava un’equipe di medici di colore. Per due anni, grazie alla dedizione della madre e dei fratelli Wilma fece avanti e indietro per due volte a settimana e dopo 200 di quei lunghi viaggi fu finalmente in grado di camminare con un tutore in acciaio alla gamba sinistra. Seguirono 5 anni e quattro sedute di massaggi al giorno, al termine dei quali Wilma tolse il tutore e, in poco tempo, divenne un’atleta formidabile.

A soli 16 anni si guadagnò l’accesso ai Giochi di Melbourne (1956) dove venne eliminata nel secondo turno delle batterie dei 200, ma conquistò la medaglia di bronzo nella 4×100m con la squadra statunitense. L’inizio della carriera da atleta assoluta fu difficilissimo, poiché, rimasta incinta di una bambina, dovette affrontare il severo padre e il divieto per le ragazze madri di far parte della squadra di atletica.

Ma il talento e la determinazione di Wilma erano tali, che le fecero  superare ogni difficoltà. Come quel 9 luglio del 1960. Texas, l’autista dell’autobus che deve portarla allo stadio si rifiuta di far salire a bordo lei e il gruppo di atlete nere. Per fortuna si trova un conducente sostitutivo e Wilma non perde l’appuntamento con  uno strepitoso 22”9: nuovo record mondiale dei 200m.

Lo stesso anno ottenne l’accesso alle Olimpiadi di Roma, dove vinse con disarmante facilità l’oro nei 100m, nei 200m e con la staffetta 4×100m. La cronaca del tempo narra come nessuno seppe resistere al fascino e all’elegante potenza della “gazzella nera” e il gossip olimpico  la vide “flirtare“ con un tipo alto e con gli occhiali scuri: Livio Berruti, trionfatore sui  200m. Ma questa è un’altra storia…   

Dopo il suo ritiro, nel 1963, Wilma si dedicò all’insegnamento, all’attività di tecnico di atletica e alla “Wilma Rudolph Foundation” che continua ancora oggi ad aiutare i bambini a superare gli ostacoli della vita.

Prematuramente, proprio come è nata, Wilma morì il 12 novembre del ‘94, a causa di un tumore al cervello.
Nella sua autobiografia, Wilma ha scritto:  “Dentro ognuno di noi c’è il seme di una potenzialità che ci può rendere grandi.»

Daniele Sottile

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